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martedì 14 febbraio 2012

INTERVISTA A PHILIP RIDLEY

INTERVISTA A PHILIP RIDLEY
(traduzione di una radio-intervista in occasione del Tokio  International Film Festival 1996)






L’infanzia è un tema che trova molto spazio nelle tue opere. Com’è stata la tua?

Sono nato nell’ East End di Londra. Tutti in famiglia siamo Eastenders. Vivevamo tutti nello stesso isolato: nonni, zie, zii, cugini di primo e secondo grado. Era una vera e propria famiglia allargata. Quando penso alla mia infanzia mi sembra come fosse su un altro pianeta.

E tu com’eri su questo pianeta?

Esattamente come sono ora. Non credo di essere cambiato affatto. Per quanto mi sforzi di tornare indietro coi ricordi mi vedo sempre a disegnare e scrivere storie. Conservo ancora le favole che scrissi quando avevo cinque anni. Tutto quello che mi serviva per essere un bambino felice era una matita e una pila di fogli. Ho una fotografia che scattò mio padre quando avevo diciotto mesi: io seduto sul seggiolone intento a disegnare. E – Dio santo –  quelle le ciglia aggrottate! L’immagine della concentrazione. Difficile da credere.

I tuoi genitori erano dediti all’arte?

Che dirti, entrambi i miei, erano – e ancora lo sono – molto bravi in quanto a manualità.
Mio padre sa smontare e rimontare una macchina ad occhi chiusi. Mia madre aveva fatto pratica di cucito, sapeva lavorare a maglia. Quando ero bambino maglioni e simili non mancavano mai.  E mia nonna anche lei ricamava e sapeva fare bellissime isole incantate…
Ma se parliamo di arte con la A maiuscola come la intendi tu, quella proprio no.
Era anzi una specie di maledizione per loro.

Devi averli spaventati a morte?

In un certo qual modo suppongo di si. Le cose che interessavano a me per loro erano totalmente estranee. Tanto per cominciare, non riuscivano a capire perché un bambino volesse passare la maggior parte del suo tempo da solo.
Avrei dovuto essere lì fuori, a giocare con gli altri. Ma non mi sono mai sentito veramente parte di un gruppo. Non credo di essermi mai integrato per davvero. La cosa principale che mi separava da loro – a parte il fatto che non mi piaceva il calcio, e già questa era ritenuta una mancanza suprema dalle mie parti – era che stavo sempre male. Soffrivo di asma cronica e la cosa mi costringeva a letto per intere settimane.
Prendevo allora un farmaco chiamato Etheldrene. Ora è stata tolto dal mercato, perché pare sia un forte anfetaminico molto vicino come effetti allo speed.
Immagina la scena: un bambino di otto anni, ossessionato dal disegno e dalla scrittura, chiuso nella sua stanza a causa del suo stato di salute, e strafatto di tanto di quello speed da tenere un teenager in piedi per una settimana.
Non per niente scrivevo innumerevoli romanzi e ho tenuto la mia prima esposizione a quattordici anni. Ero un vero e proprio tossicomane per prescrizione medica.

Eri un tipo solitario da bambino?

Non direi. O perlomeno, non me ne sono mai reso conto. Dopotutto quella era l’unica realtà che conoscevo.
E poi i personaggi dei miei lavori li sentivo così reali.
Loro mi facevano compagnia. Ero solito parlargli, in maniera naturale, proprio come sto parlando con te.
E poi, certo, c’era la lettura.

Cosa ti piaceva leggere?

Fumetti, innanzitutto. Ti sto parlando di quando avevo cinque o sei anni. Roba tipo “L’uomo ragno”, “Superman”,  “Thor”, “Iron man”, “I fantastici quattro”, gli “X-men”.. Ah, gli “X-men” quelli erano i miei preferiti. Avevo una passione matta per loro. Scrissi le mie piccole storie su di loro, poi le misi in scena con i nuovi amici che avevo conosciuto.

E tu quale personaggio interpretavi?

Il “Professor X”. C’era un bambino paraplegico nella via in cui abitavo e io usavo la sua sedia a rotelle. E’ una cosa terribile a ripensarci: lo tiravo giù dalla sua sedia, lasciandolo piangere a carponare sul marciapiede, poi ci saltavo su io e diventavo il capo degli “X-men”.

L’arte non conosce la pietà, no?

No, sono i bambini a non conoscere la pietà. Sai, quello che mi aveva reso popolare tra gli altri ragazzini era il mio talento nell’uccidere animali. Bruciare un ragno con la mia lente d’ingrandimento era un modo sicuro di richiamare una gran folla intorno a me. O tagliuzzare i vermi. O schiacciare i scarafaggi lentamente. Ero “Il grande esecutore dei ragni e delle creature striscianti”. Ricordo che una volta lo scrissi in un compito. Dovevamo fare una lista delle cose che ci piaceva fare. Così insieme allo scrivere, al disegnare, al leggere e agli X-men, misi nella lista la tortura e l’uccisione degli insetti. La maestra era sconvolta. Però avevo imparato una lezione. Ci sono verità per cui le persone ti ameranno per avergliele dette, e altre verità che le persone per avergliele dette ti odieranno. E credo che versare la varecchina sulle coccinelle occupi un posto abbastanza in alto nella seconda lista.

C’è una forte vena horror in quasi tutti i tuoi lavori.

Dopo i fumetti, i primi racconti che lessi erano “di paura”. E gli autori preferiti della mia infanzia e adololescenza  gravitavano tutti attorno a questo genere.

Qualche esempio?

Oh, la lista sarebbe senza fine. Il primo autore che divenne un’ossessione per me fu Richard Matheson. Penso tuttora che “Io sono Leggenda” sia uno dei migliori romanzi mai scritti. Poi ci sono i racconti brevi di Robert Bloch – quasi tutti un capolavoro, credo. E, chi altro… Philip Dick – forse il mio scrittore preferito. E Stephen King, certo. Va tanto di moda criticarlo oggi, ma “The Shining” è uno dei pochi romanzi che mi ha messo addosso una tale paura che dovetti dormire con la luce accesa. Un altro romanzo che ebbe su di me lo stesso effetto fu “L’esorcista” di William Peter Blatty. Scrissi pure un saggio scolastico su “L’esorcista” quando avevo quattordici anni.

Come lo valutò l’insegnante d’inglese?

Non molto bene. Ho avuto una D.  Il suo commento è stato del tipo “un pezzo ben scritto su dell’inutile spazzatura”. Fu un'altra lezione da mettere da parte: le persone valutano il soggetto sopra ogni cosa. Dei teneri micetti che giocano con gli stivali susciteranno sempre una reazione migliore di una ragazzina dodicenne che si masturba col crocifisso.

Questo tuo interesse verso l’horror riguardava anche le tue opere figurative?

Si. Anche se sono felice di dire che l’insegnante d’arte era un pochino più illuminata di quella d’inglese. Lei faceva osservazioni sul come avrei dovuto dipingere una testa decapitata, non pretendeva che non disegnassi più teste decapitate.
La signorina Driscoll, così si chiamava, ha avuto una grande influenza su di me durante l’ultimo anno o giù di lì.
Mi ha fatto conoscere artisti come Bacon, Goya, Bosch, Dix, Dalì, Beckmann, De Chirico – e tutti condividevano l’interesse verso la parte più oscura della natura umana.
Li ho amati tantissimo, in particolar modo De Chirico. Compresi i suoi ultimi lavori per i quali molti ancora lo deridono. La sola cosa che Miss Driscoll veramente disapprovava erano i miei continui tentativi di convincere i compagni a spogliarsi.
Vedi, volevo disegnarli nudi. Di più volevo disegnarli mentre avevano un’erezione. Si capisce.

E loro? Come reagivano?

Nel modo in cui la maggior parte delle persone ancora reagisce: “Sei malato!” “Stai fuori!” Ma a me sembrava, e mi sembra ancora, una cosa del tutto naturale. Ma, sai, ero stato considerato il tipo strano a scuola per così tanto tempo che la cosa non mi toccava più di tanto. I miei compagni di scuola pensavano che ogni cosa che mi riguardava era stravagante. Persino i miei gusti musicali pensavano fossero stravaganti!

Che tipo di musica ascoltavi?

Colonne sonore. Ero – e lo sono ancora – ossessionato dalla musica dei film.
Ero così eccitato – e mi capita di esserlo anche ora -  ogni volta che usciva una nuova partitura di John Barry; la sensazione era la stessa che avrebbero potuto provare i miei amici per un nuovo cd del loro gruppo preferito.

John Barry è stato il primo compositore al quale sei stato interessato?

Si. E non era per la musica di Bond, anche se trovo molto bella anche quella. E’ stata la sua partitura per The Whisperers. Uno dei più pezzi musicali più malinconici che abbia mai ascoltato.
E naturalmente quella che probabilmente è stata una delle migliori serie di sempre: The Persuaders.

Chi altro ti piaceva?

Oh… come per gli scrittori di horror la lista è senza fine. Bernard Herrmann, Jerry Goldsmith, Lalo Schifrin, Ennio Morricone, Ron Grainer, Jerry Fielding, John Williams. Ho tutte le loro colonne sonore. Spesso suonavo questa musica agli amici. Mi guardavano come se avessi la camicia di forza.
Ricordo una volta a scuola, durante un’assemblea mattutina, era arrivato il mio momento di parlare. Si poteva scegliere l'argomento del proprio discorso. Una cosa credo sia capitata a tutti almeno una volta. La maggior parte dei ragazzi aveva tirato fuori cose del tipo essere educati con i grandi, gli eroi dello sport o – ancora più noioso – l’essere cristiani.
Così ho pensato: fanculo tutto questo! Parlai di John Barry e suonai il tema “Capsule in Space” tratto You only live twice.

E quale fu la reazione?

I ragazzi – beh loro si  limitarono a ridacchiare. E gli insegnanti – non vi prestarono quasi attenzione.. La stessa cosa capitò quella volta  che snobbarono il mio compositore preferito. Shostakovitch. Dissi al mio insegnante di musica quanto amavo la Sinfonia no.5  di Shostakovitch e lui: “al massimo posso concederti Prokofiev ma Shostakovitch proprio no”. Il tempo, credo, abbia poi dimostrato che il signor Maestro di Musica aveva torto.

Non hai molte cose buone da raccontare a proposito dei tuoi anni scolastici.

O beh.. suppongo ci siano stati bocconi dolci e bocconi amari da mandar giù. E alcuni buoni insegnanti lungo il cammino. Ma sostanzialmente mi annoiavo a morte. E non c’era niente, ma proprio niente di quello che imparavo che sarebbe potuto  tornarmi in qualche modo utile più tardi. Quasi tutto quello che facevo lo facevo per conto mio. L’istruzione scolastica è niente più che un  crimine legalizzato, per come la vedo io. Dovremmo insegnare ai bambini come apprezzare il colore giallo piuttosto che le quote del pescato a Crewe nel 1953. Non conta niente sapere mille cose su Shakespeare se poi non ti commuovi alla fine del  “King Lear”. L’arte di fatto era bistrattata nella mia scuola. Sai dove mi mandavano quando non volevo andare in palestra? In biblioteca o al laboratorio d’arte per punizione. Ti rendi conto? L’arte come punizione.

Stando così le cose deduco non ti abbiano incoraggiato a scegliere un indirizzo artistico nel prosieguo degli studi?

No. Ma io non volevo né avevo bisogno del loro incoraggiamento. Avevo già messo da parte un discreto numero di lavori – faccio esposizioni da quando avevo quattordici anni. Una volta a settimana andavo a lezione dall’artista Cecil Collins. E avevo già deciso che sarei andato alla St Martin’s School of Art.

Hai studiato pittura?

Si, ma “scuola d’arte” era da intendersi in un’accezione molto ampia del termine. Avresti potuto lanciare delle teste di scimmia e chiamarla pittura. Ora che ci penso c’era davvero qualche appassionato di giocoleria che si dilettava con le teste di scimmia. Per quanto mi riguarda avevo messo su la mia compagnia teatrale: scrivevo i copioni, recitavo, componevo le musiche e mi occupavo della coreografia. E ovviamente continuavo a coltivare l’interesse nel fare film.

Continuavi? Facevi film già da prima della scuola d’arte?

Da molto prima. Ho sempre avuto un interesse per la fotografia. Da bambino mia nonna mi faceva usare la sua vecchia Box Brownie. Io preferivo quella a tutte le macchinette nuove.
La prospettiva nelle foto veniva sempre inclinata (Dutch-angled) e leggermente sfocata.  Proprio come in un sogno. Poi quando ho compiuto quattordici anni ho trovato un lavoretto part-time e con i soldi messi da parte mi sono fatto una cinepresa Super 8. E all’epoca della St Martin avevo già girato un film in 16mm e sperimentavo coi video.

Che genere di video facevi da studente?

La maggior parte delle riprese avevano come protagonisti  miei amici che si spogliavano e facevano cose sconce.

Erezioni finalmente!

Halleluja!

Come è avvenuto il passaggio dai filmetti pornografici studenteschi al tuo primo lungometraggio?

Beh i miei film da studente non è che fossero solo di quel tipo, alcuni erano splatter e mi ero conquistato un buon seguito tra il pubblico underground. Li mostravo nei cineclub. E alcune videocassette avevano cominciato a girare. Poi un giorno una di quelle attirò l’attenzione di qualcuno di Channel Four e del British Screen che avevano appena iniziato produrre la loro serie di corti “Short and curlies”. E mi proposero di scrivere una sceneggiatura per un corto di 10 minuti. Così scrissi “The Universe of  Dermott Finn”.

Che ebbe subito molto successo, no?

Suppongo di si. Fu premiato al Festival del cinema di Berlino e il pubblico si alzò in piedi ad applaudire. Alla critica piacque da matti. Ebbe anche una distribuzione cinematografica in Gran Bretagna.

Come cominciò a prendere forma il soggetto per Reflecting Skin?

Venne fuori direttamente da una serie di disegni e dipinti che feci mentre ero ancora studente d’arte. La chiamai “American gothic”.
Vi erano rappresentate alcune immagini simbolo dell’America: bambini che giocano nei campi; Cadillac nere;  cieli blu chiari dietro case come quelle che dipingeva Andrew Wyeth. Un posto dove tutti i giovanotti indossavano giacche di pelle e avevano capelli neri, pettinati col ciuffo; e tutte le donne erano bionde come Marilyn Monroe. Ma c’era un qualcosa di oscuro. Quando guardavi più da vicino ti accorgevi che quei bambini che giocavano nei campi stavano torturando degli animali e che quei bellimbusti col ciuffo portavano appresso coltelli alla Psycho.

Sebbene tu non sia mai stato in America, giusto?

E’ proprio questo il punto. Si tratta di come immagino io l’America.  Sai quell’artista americano, Joseph Cornell, ha fatto la stessa cosa all’inverso. Ha fatto quelle piccole scatole piene dell’iconografia di come lui immaginava l’Europa.  Immagini  che    venivano da libri, film, fotografie. La mia America è esattamente la stessa cosa. E’ come sognavo l’America dopo anni di letture di fumetti e romanzi dell’orrore americani. E certo anche di film horror.

Ti piacciono i film horror?

Per quanto ne so alla maggior parte dei pittori piacciono.

Per quale motivo?

Perché chi dipinge li vede come un condensato di surrealismo. Una sequenza di immagini meravigliose. Non ci sono dilemmi morali o snobismo artistico. Una buona immagine è una buona immagine. Le immagini horror dovrebbero essere giudicate al pari di qualsiasi altra immagine: dal colore, dalla forma, dalla composizione. E cosa più importante di tutte: da cosa ti fa sentire. Le immagini in fondo non fanno altro che liberare sensazioni. E ce ne sono di molto efficaci in tal senso nei film dell’orrore. Io preferirei vedere una testa che esplode piuttosto che… beh, ad essere sinceri, penso che preferirei vedere una testa che esplode piuttosto che qualsiasi altra cosa.

Così le immagini della sequenza del tuo “American Gothic” sono diventate un’idea per un film?

Si, per gradi. Ho creato un personaggio per collegarle tra loro: un ragazzino con i capelli scuri vestito vagamente anni ‘50 chiamato Seth, che in inglese antico sta per “diavolo”. Avevo fatto un dipinto chiamato “Seth gioca con una rana” , un altro “Seth fa un giro su una Cadillac”. In apparenza si trattava di immagini gioiose ma ad un esame più attento nascondevano qualcosa di inquietante. Seth giocava con la rana o la stava torturando? Si stava gustando il suo giro in macchina o  stava per essere ucciso? E ti dico, piano piano ho cominciato a pensare che quelle immagini potessero stare assieme e dare vita ad una mitica, allucinogena estate nella vita di un bambino.

E ne hai tirato fuori una sceneggiatura.

Il titolo della prima stesura era American Gothic.

Il film è stato considerato, e lo è ancora, uno dei più audaci e bizzarri debutti cinematografici, in particolar modo per un regista inglese. Non eri preoccupato di fare il passo più lungo della gamba?

Proprio lì stava la sfida. Almeno per me. Gli altri non erano così convinti. molte persone che conoscevano la mia produzione letteraria - ma non la mia pittura – non riuscivano a capire perché mi fossi messo in testa di girare qualcosa ambientato in America. Dopotutto ogni cosa che avevo scritto fino ad allora aveva come scenario l’Inghilterra, in particolare l’East end di Londra.

La tua sceneggiatura di “The Krays” stava entrando in fase di produzione nello stesso periodo, no?

Esatto. E non potresti immaginare un progetto più tipicamente “East London” di quello. Ricordo che qualcuno suggerì di riambientare tutta la storia di American Gothic in Inghilterra. io ho provato a spiegare che, prima cosa, American gothic non è ambientato in America ma nella mia testa. Secondo, l’immaginario della storia non funzionerebbe da nessun'altra parte.

Qual sarebbe l’equivalente inglese di una Cadillac nera in viaggio attraverso l’Idaho?

Una Hillman Imp che attraversa Suffolk.

Non proprio la stessa cosa.

Manca quella certa miticità, in effetti.

E così via verso l’America.

Beh,  l’ Alberta in Canada, per essere precisi. Quando arrivò il momento di fare le riprese c’era un solo posto dove il grano non era stato ancora mietuto. E quando iniziammo a girare il nome del film era già The Reflecting Skin.

Il film ha un’ambientazione molto particolare. Come sei riuscito ad ottenere quel risultato?

Allora, considera che prima di girare ho preparato uno storyboard molto dettagliato. E questo storyboard non indicava solo le varie inquadrature e la loro composizione, ma anche lo schema di colori che avremmo usato per tutto il film. I due colori dominanti dovevano essere il giallo e il blu.  Il giallo, ovviamente, quello del grano. Ora, il grano - anche quando è nel suo periodo di massima maturità – non è giallo.
E’ una specie di marroncino. Così abbiamo usato una serie di filtri coral sulla macchina da presa per alzare il livello del giallo. E in alcune occasioni abbiamo dovuto colorarlo.

Avete colorato il grano?

La scena quando Seth si avvicina alla casa di Dolphin, all’inizio del film, tutto il grano è stato colorato con delle bombolette spray della gradazione Indian Yellow.
Ora se ci aggiungi le lenti coral ed il fatto che giravamo solo a tardo pomeriggio, nell’ora magica, l’effetto che ne viene fuori è strabiliante.

Spiega meglio questo fatto dell’ora in cui giravate.

Volevo che le riprese fossero fatte quando il sole era in una fase culminante di intensità e doratura. E le ombre più lunghe possibili. Così abbiamo pianificato le cose in un certo modo. Al mattino si arrivava sul posto e si provava. Finché ogni cosa funzionava alla perfezione – interpretazione, movimenti di macchina, tutto- poi ci prendevamo una pausa per il pranzo, dopodiché un’altra sessione più veloce di prove e poi via a girare in fretta e furia tra le 16 alle 20. Era una maniera rischiosa di lavorare – e credo di aver procurato al mio assistente alla regia più di qualche attacco di cuore – ma ne è valsa la pena. Ogni mattina guardavamo il girato e la fotografia, semplicemente, toglieva il respiro. Certo, lavoravo con Dick Pope uno dei migliori del settore. Abbiamo curato l’aspetto visivo del film fino alla post-produzione:  il giallo è stato intensificato ancora in fase di trattamento alla Technicolor.

E il secondo colore che hai menzionato, il blu, era quello del cielo?

Si.

E – in contrasto con questo giallo e questo blu – tutti i personaggi vestono di nero?

O di grigio. E qualche volta di bianco. Ma in nessun caso  vestiti “colorati”. Gli ho anche fatto tingere i capelli. Sia Viggo Mortensen che Jeremy Cooper – che interpretavano rispettivamente Cameron e Seth – sono biondi. Ma i loro capelli per il film sono diventati neri coi riflessi blu.

L’interpretazione di Jeremy Cooper è davvero straordinaria. Non ha recitato nel modo in cui di solito i bambini recitano  nei film.

Questo è ciò che le persone hanno trovato così disturbante. Non è un’idea adulta dell’infanzia. E’ come l’infanzia è davvero. Le persone mi dicevano : 
“Oh, Seth è un ragazzino così strano, malvagio”. E io replicavo: “No, non lo è. E’ soltanto normale”. Ad ogni modo, sai, credo sia la cosa più normale del film.

Ancora una volta, l’infanzia non conosce pietà?

Esattamente. Sai, ogni cosa dove c’è un bambino me la fa fare sotto. Mary Poppins è un film dell’horror in tutto fuorché nel nome, per quanto mi riguarda.
Metti Billie Whitelaw  al posto di Julie Andrews e hai fatto The Omen.

Gli attori più piccoli capivano cosa succedeva nel film?

Mentre lo stavano facendo? No, hanno trascorso solo delle belle giornate. La cosa che li divertiva di più era il modellino dell’infante morto – o Febo il Feto, come lo avevano chiamato. Comunque, successivamente, assistettero alla proiezione del film al Vancouver Film Festival.
E ognuno dei tre ragazzi si portò appresso la propria scuola. Così il pubblico era composto di circa quattrocento decenni. E ti dico – non hanno smesso di ridere un attimo dall’inizio alla fine. La rana esplode e loro giù a sbellicarsi. Il padre si suicida e loro che si rotolavano per terra dalle risate. Un bambino veniva ucciso – e risate, risate! In un certo senso è stato il miglior pubblico che il film abbia mai avuto.

I bambini ne avevano colto l’umorismo nero?

Assolutamente. Dopotutto quando dici alla gente che il film parla di  pedo-omo-assassini di bambini spesso non sono propensi a cogliere il lato divertente.

Non ne colsero il lato divertente quando ci fu la prima al Festival di Cannes. Metà degli spettatori non si precipitarono forse fuori dalla sala?

Alla prima si. La rana esplode in faccia a Lindsay Duncan – esodo di massa. Io stavo assistendo alla proiezione. Ero così depresso che avrei voluto prendere il primo aereo per tornare a casa. Ma sai, poi avvenne un fatto strano: quella notte non si parlò d’altro che del film. E la mattina dopo la stampa gli aveva dedicato molto spazio nelle recensioni. Tutte le successive proiezioni fecero il tutto esaurito. Tanto che l’organizzazione si adoperò frettolosamente per delle proiezioni aggiuntive. Parlai con un giornalista francese dieci minuti dopo la proiezione della prima. E lui mi disse: “Il tuo film è già un cult”. Stava per diventare un grande successo del festival.

Ma, e siamo in molti a pensarlo, credo si giusto dire – facendo mie le parole di  Derek Malcolm sul “The Guardian” – che questo è uno di quei film che o lo si ama o lo si odia.

Entro certi limiti ci sono abituato. Ogni cosa che ho fatto ha ricevuto reazioni contrastanti. Quello che mi ha più sorpreso, prima con Reflecting Skin, e più tardi con The passion of Darkly Noon, è stata l’intensità delle sensazioni. Le persone pensano che quei film siano la cosa più bella che abbiano mai visto, oppure la reputano un qualcosa di oltremodo incomprensibile.

Alcuni critici inglesi si sono sentiti veramente offesi, per usare le loro parole,  dalla eccessività gratuita dei tuoi film.

Beh, io mi sento offeso dalla gratuità di certe affermazioni sui film. A prescindere da questo, The Reflecting Skin e The Passion of Darkly Noon sono delle opere eccessive. Fa parte del loro linguaggio. L’esagerazione può essere un’arma così come lo può essere il minimizzare. E comunque l’esagerazione, come la bellezza, sta negli occhi di chi guarda. La maggior parte delle persone ha pensato che la sequenza della rana che esplode non fosse soltanto eccessiva, ma brutta. Ma per me contiene una delle immagini più belle del film: la faccia di Linsay Duncan cosparsa di sangue contro il cielo. Bianca porcellana contro blu.
Il nero dello scialle e degli occhiali da sole. Barbarico si. Ma altrettanto bello.

Barbarica bellezza”. Questa è l’espressione che ricorre più frequentemente in relazione alla tua opera.

Questa cosa della barbarica bellezza c’è sempre stata. Fin dai dipinti e dai disegni che facevo alla scuola d’arte. Per me ha più a che fare con una .. beh, con una qualità allucinogena. Qualcosa di intossicante. Qualcosa che colpisce i sensi. Come un trip acido. In particolar modo in questi due film. Trama e personaggi sono l’ultima cosa. In effetti ho sempre pensato che se guardi ai miei film come un viaggio allucinogeno sei già a metà strada per comprenderli. Dimentica la logica, accetta il fatto che qualcosa possa accadere e spesso lo fa. Come in un sogno. I sogni sono fatti di immagini. Ci svegliamo e ricordiamo delle immagini. Momenti. Sensazioni fugaci. Non ricordiamo tutta la storia. Non siatelo, sognatelo.



Estratto di una radio intervista con Philip Ridley pubblicata su "The american dreams" ed. Methuen; Copyright: Philip Ridley
Traduzione dall'inglese: Oberon251

sabato 4 febbraio 2012

THE REFLECTING SKIN (1990) - PHILIP RIDLEY





Un giorno ti sveglierai e avrai perso tutto. La tua bella pelle sarà rugosa e raggrinzita. Perderai tutti i capelli... la vista... e la memoria. Le vene ti si ingrosseranno. I denti diventeranno gialli e cadranno. Comincerai a puzzare. A non trattenere i peti. Tutti i tuoi amici saranno morti. L'artrite ti immobilizzerà. Te la farai addosso. Tu prega solo che quando tutto questo accadrà ci sia qualcuno accanto a te, che ti ama...






Signore e signori, questo è un grande film. Si tratta del primo lungometraggio da regista dell'affermato scrittore londinese Philip Ridley, autore tra le altre cose della straordinaria raccolta di racconti Fenicotteri in orbita, di Caccia al feroce Iellagel e di altri fortunatissimi libri per adolescenti e bambini. 


LA TRAMA


Negli anni cinquanta in Idaho un bambino di nome Seth Dove (Jeremy Cooper) si diverte a far scoppiare rane fra fiumiciattoli e dorate distese di grano.

Seth vive con i genitori. Il padre, Luke Dove, è un uomo dal carattere debole che trascorre le sue le giornate tra romanzetti con storie di vampiri e il lavoro in una sperduta pompa di benzina.

 La madre è una donna esaurita, ossessionata dallo sporco e dal grasso che impregnano tutto, a cominciare dal marito.

 Lei non si dà pace e aspetta il ritorno da eroe del figlio Cameron (Viggo Mortensen)  partito soldato nelle Isole del Paradiso. 

Il fratello maggiore del piccolo Seth ritornerà dalla guerra del Pacifico ma men sano che salvo, nella mente e nel cuore e si innamorerà di una misteriosa vedova bionda (Lindsay Duncan) che forse è una vampira...

Completano il cast un'ottuso sceriffo guercio e vendicatore; Eben, l'angelo-feticcio, strappato due volte alla terra e al cielo; e infine una Cadillac con a bordo quattro strani individui dai modi garbati ma dispensatori di  rapimenti, sparizioni e morte...




LA RECENSIONE


L'idea del film nasce da una serie di dipinti alla quale Ridley aveva lavorato. La serie, ci spiega l'autore, si chiamava American Gothic e rappresentava l'immaginario dell'America anni cinquanta, fatto di bambini che giocano nei campi, di Cadillac nere, di cieli blu chiari dietro case tipo quelle che dipingeva Andrew Wyeth e di giovanotti coi giubotti di pelle e il ciuffo alla moda. Immagini gioiose in apparenza, racconta il regista, ma come ti avvicinavi ti accorgevi che quei bambini stavano in realtà torturando delle rane e che quegli attraenti giovanotti col ciuffo portavano appresso coltelli alla Psycho. Partendo da questa idea di base Ridley cominciò a pensare che "tutte quelle immagini potessero stare assieme e dare vita ad una mitica, allucinogena estate nella vita di un bambino".


Ridley non era mai stato in America e lo scenario dove immaginava la sua storia, oltre che mentale, era tutto di origine letteraria, cinematografica, pittorica. Quando si trattò di scegliere la migliore location per le riprese però non scelse l'idaho, meta pensata nella sceneggiatura, bensì il Canada. Ma solo perché, racconta il regista, quando arrivò il momento di girare, quello in Alberta era l'unico posto dove il grano non era stato ancora mietuto.




Lo sguardo del bambino come punto di vista privilegiato del racconto per denunciare vizi e corruzione de mondo dei grandi non è una novità nel cinema, ma spesso quella che ci viene proposta è un'idea costruita e adulta dell'infanzia. Non qui. Il bambino di Ridley non suggerisce cure di bontà. E se lacrime deve strappare queste saranno di sangue come quelle della vedova Dolphin o quelle del fratello mentre abbraccia la salma dell' amata; o anche di dileggio, come quelle versate nel fienile dall'orfano di madre  Eben a cui viene negato il conforto di una verità ultraterrena; e infine lacrime mai piante di rifiuto,  quando sfugge le carezza materne.
"Mia madre è morta. E' in paradiso. Adesso è un angelo"
"No non è vero. E' in una bara e se la mangiano i vermi!"


Il regista ci tiene a precisare che il ragazzino non è cattivo ma è un bambino normale. Ed è proprio il voler rappresentare la crudeltà infantile come esperienza universale di crescita uno dei punti di forza dell'opera di Ridley. Lo spettatore rivive per un'ora e mezza in quel mondo a parte chiamato infanzia, dove la morale non è ancora coscienza ma solo il rosario delle prescrizioni materne.
"Ogni volta che fai piangere la mamma uccidi un angelo"


Seth non è solo la vittima del mondo spaventoso che lo circonda ma contribuisce in maniera significativa a crearlo. Come la maggior parte degli antieroi ridleyani il bambino Seth è tanto vittima quanto carnefice. Ama le superfici e adora tutto ciò che luccica. La sua fantasia non salva ne redime e ha i colori di una favola nera.

Seth resta incantato davanti alla magnificenza dell'incendio quando il genitore si dà fuoco.
La presa di coscienza di Seth passa attraverso tre momenti:

Il ragazzino confida la propria sconfitta all'angelo. Non c'è rimasto altro da fare. Lei la vampira gli sta di nuovo portando via il fratello amato.

"Ha vinto lei Eben"
La crepa aperta dalle lacrime di Cam. L'inaccettabile consapevolezza davanti alla di lui disperazione, il corto circuito del suo mondo magico a contatto con la realtà.



Colpevole in pensieri, opere e omissioni - è il verdetto. Il senso di colpa esplode sotto il rosso acceso del tramonto.




COLLEZIONANDO

E' uscita recentemente un'edizione di Riflessi sulla pelle in dvd targata Storm Video e distribuita da MHE. E questa è una buona notizia perché da la possibilità a chi l'avesse perso all'epoca di goderselo per la prima volta e a chi l'ha profondamente amato di rimpiazzare la vecchia gloriosa vhs.
C'è anche una notizia meno buona: la qualità del dvd in questione nulla aggiunge e nulla toglie alla succitata videocassetta. Stessa, ahimè, gracchiante traccia audio italiana che soffre terribilmente la sontuosa colonna sonora di Bicât e video che da solo non giustifica il cambio di supporto.
Il prezzo è accessibile, circa 8 euro su Amazon.


Attenzione: la scheda tecnica del dvd, sempre su Amazon, segnala la presenza di sottotitoli che in realtà non ci sono. Per gli amanti dei film in lingua originale sottotitolati questo è un vero peccato, perché la traccia audio inglese è invece presente. E stando così le cose se la godranno in pochi.

Conclusioni:
Fermo restando la lodevole iniziativa di reintrodurre questo prezioso film sul mercato italiano, bisogna prendere atto che il dvd nostrano non è "abbastanza".
Per chi come me non s'accontenta di una qualità appena sufficiente per un film che merita davvero miglior sorte, spenderò qualche riga di più sulle altre edizioni di Reflecting Skin disponibili sul mercato estero.

Passiamole in rassegna:

Edizione giapponese: la prima ad essere disponibile in dvd. Fra i punti di forza c'è l'audio in inglese che ne ha fatto per lungo tempo l'unica edizione fruibile a livello internazionale. La qualità video è solo discreta. Extra presenti: il trailer originale.

Edizione spagnola: la migliore per quanto riguarda la parte video. Purtroppo è presente solo la traccia audio in spagnolo.

Edizione tedesca: è piuttosto recente ed è l'unica su supporto blu-ray. Ci si aspetterebbe una resa video senza rivali e invece ci troviamo di fronte ad una qualità generale desolante: colori improbabili ed un contrasto troppo sparato che affoga i particolari.

Edizione americana: è l'ultima arrivata, dicembre 2011. Presentata all'interno di una collana super economica (Echo Bridge) nota in rete per l'inaccuratezza delle sue edizioni. E le primissime recensioni sembrano confermarne la fama negativa: aspect ratio 4/3 (sigh), transfer di probabile provenienza vhs (sigh)... Quindi per il momento non cambia niente. Se non l'allontanarsi del giorno in cui ci verrà proposta un'edizione definitiva, con extra succosi, commento del regista, magari della Criterion...

A titolo puramente indicativo ecco qualche screenshot delle edizioni di cui sopra:

Dvd giap - est campo grano

Dvd spa- est campo grano

Blu-ray ted - est campo grano

Dvd ita - est campo grano



Dvd giap - Interno

Dvd spa - Interno

Blu-ray ted - Interno

Dvd ita - Interno

Dvd giap - primo piano viso Seth

Dvd spa - primo piano viso Seth

Blu-ray ted primo piano viso Seth
Dvd ita - primo piano viso Seth